VASTO. Il Covid-19, i nonni ed i ricordi: la triste eredità del virus sull’umanità.
Quando pensiamo al Covid-19 ci vengono subito in mente i nostri cari defunti, portatici via da un nemico invisibile che, lentamente, li ha consumati fino a sfinirli. Le immagini delle bare trasportate via dall’esercito, in una Bergamo avvolta dal buio, hanno fatto il giro del mondo e ci hanno uniti: un sottile ed invisibile filo del destino che, presto o tardi, ha accomunato ognuno di noi. Chi ce l’ha fatta e chi no. Perché la verità è che noi umani siamo sempre stati un solo popolo, a prescindere dal nostro stato sociale o dalla città di nascita, dalla religione o dal colore della pelle. Anche se troppo spesso ce ne dimentichiamo.
Con il trascorrere del tempo, complice un mondo che corre più veloce di quanto ogni essere umano o del regno animale possa fare, ci siamo uniformati a degli standard: vestiamo tutti allo stesso modo anche chi, guardandosi allo specchio, si racconta il contrario, dibattiamo sugli stessi argomenti pur non conoscendoli sempre a fondo, ascoltiamo la stessa musica, seguiamo le stesse serie tv e ci omologhiamo agli altri, confondendoci. Il tutto esclusivamente per sentirci meno soli e per non correre il rischio di essere esclusi. Ci contagiamo in milioni di modi, senza che ce ne accorgiamo. Per questo il contagio sanitario, e tutto ciò che il Covid-19 ha scatenato, è stata una delle conseguenze del nostro essere così profondamente legati gli uni agli altri.
Un lungo periodo di quarantena e di perdite, qui raccontate in pochi punti senza pretese consolatorie o presunzioni personali, in cui siamo rimasti a casa, sul divano, senza dormire, attaccati alle tv ed ai nostri telefoni nella speranza che quelle distanze reali si tramutassero in vicinanze, con gli hashtag andrà tutto bene a fare da sfondo alle nostre giornate. A mangiarci le unghie per combattere lo stress, piangendo per la nostra impreparazione alla pandemia, sgranchendoci le gambe attorno al divano o mentre ci recavamo in bagno per lavarci le mani per l’ennesima volta, in un turbinio di azioni e di abitudini che mai ci è appartenuta ma che, in questi mesi, è divenuta nostra, iscritta in un nuovo tassello del nostro DNA. Abbiamo cantato sui balconi, applaudito, ci siamo riscoperti amanti della natura ed umani come mai prima d’ora ed abbiamo sbattuto la testa, violentemente, contro il muro di ciò che abbiamo perso per sempre.
Famiglia, arma a doppio taglio
Il virus ha giocato sulla nostra debolezza, sulla nostra necessità di far parte di un branco, di una famiglia, rendendo questa nostra esigenza l’arma più efficace per la nostra distruzione. È arrivato in silenzio, come un parente che si presenta sull’uscio di casa senza avvisare preventivamente, e ci ha privati delle nostre certezze, ancor prima della nostra libertà. Tra queste, appunto, la famiglia, uno dei cardini fondamentali su cui si basa l’intero sistema umano.
Nessun abbraccio in cui perdersi, mai più baci rubati al tramonto, nessun pranzo domenicale gli uni accanto agli altri, stretti nell’affetto consolatorio della famiglia allargata dove si fondono diverse generazioni: dividerci dai nostri cari, seppur fisicamente, è stato solo il primo passo di una guerra in cui l’uomo sembrava aver perso in partenza. L’impossibilità di avere una data certa sulla fine della pandemia, non sapere quando e chi avrebbe colpito, non conoscere la sua aggressività, ha fatto tremare quel pavimento di sicurezze su cui ognuno di noi siede e cammina quotidianamente.
Il futuro abusato
La pandemia ha scoperchiato il vaso di Pandora e ci ha tolto il controllo del nostro futuro: non che prima lo avessimo, ma lo davamo per scontato, programmando la nostra vita con margini di 15, 20 anni nel futuro. Come se quel tempo, tanto lontano, lo avremmo vissuto davvero e non ci sarebbe stato nessun accadimento intermedio ad interrompere i nostri piani. Ci credevamo invincibili, peccando di presunzione. E il coronavirus ce lo ha evidenziato, con doppia sottolineatura rossa per giunta. Ci ha messi in crisi, ci ha costretti a vivere ogni singolo minuto come fosse un regalo e, in fondo, lo è. Siamo stati costretti a vivere per fasi: un prima e un dopo, ma anche un durante difficilmente comprensibile ed a cui, ancora oggi, non riusciamo ad adattarci, a farlo nostro. Potremmo anche esserci abituati ad indossare guanti e mascherine, ma non ci adatteremo mai fino in fondo alla distanza sociale che, perfino ora, rispettiamo raramente durante le file al supermercato o alle poste.
Addio alle favole
Il Covid-19 ci ha portato via i ricordi, la nostra parte più intima e remota che abita nelle nostre coscienze. Nessuno escluso. Ai maturandi ha tolto la possibilità di vivere l’ansia e la tensione della “notte prima degli esami”, per usare il titolo di una canzone. Alle neomamme che, pur essendo una forza della natura inarrestabile, hanno dovuto partorire da sole: nessuna mano da stringere, niente sguardi di solidarietà dai propri compagni e genitori, nessun video o foto del parto che bloccasse il ricordo nell’infinità del tempo. Ai neomaggiorenni, che non hanno potuto festeggiare una delle mete più ambite del percorso umano e che segna l’inizio di un cammino in salita, in cui gli anni passano così velocemente che quasi non ce ne rendiamo conto: “A 16 anni un anno dura una vita poi a 30 sei già lì”, per prendere in prestito il verso de ‘La rana e lo scorpione’ di Max Pezzali.
Più di tutto, però, il virus ci ha privati per sempre dei custodi di memorie e scrigni d’affetto: i nostri nonni. Un ruolo, il loro, essenziale: educatori ed amici, rappresentano il legame tra un passato lontano ed un presente che, dai vecchi tempi, può solo imparare. Memoria storica del nostro paese, patrimonio dell’umanità che è andato via, in silenzio. Il coronavirus ha spazzato via intere generazioni di centenari o quasi centenari. Spariti per sempre, da soli: senza che nessuno potesse stringergli la mano un’ultima volta per ricordar loro di quanto importante sia stato il loro ruolo nella nostra vita.
Con i nonni abbiamo perso i racconti di una guerra tanto lontana quanto attuale, le favole della buonanotte in rima, le buone abitudini di riuso (i famosi contenitori di biscotti trasformati in custodi di aghi e fili), l’importanza di guardarsi in volto distogliendo lo sguardo dagli schermi di pc e cellulari, la gioia di vivere di chi, privato dei suoi anni migliori a causa della guerra, è riuscito a rialzarsi con coraggio ed ha rimesso in piedi la Nazione. E chissà, forse anche noi come i nostri nonni, ci rialzeremo, guarderemo al futuro con fierezza e con la consapevolezza di ciò che abbiamo perso e cresceremo, impareremo dai nostri errori e diventeremo migliori.