giovedì 18 Dicembre 2025
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La vicenda Costantini approda a “Porta a Porta”

TERMOLI. La vicenda di Andrea Costantini sale alla ribalta della “Terza Camera”, come viene definita la trasmissione di attualità “Porta a Porta”, su Rai Uno.

In chiusura del programma condotto da Bruno Vespa, che nel 2026 traguarderà il trentennale, è stata trattata la storia del 38enne trovato senza vita nella cella frigorifera del supermercato Eurospin di via Corsica, nella serata del 15 settembre scorso.

Ripercorse a grandi linee le tappe della vicenda, con la testimonianza della madre di Andrea, dell’avvocata Paola Cecchi e Angela Dileva.

Poi, si è aperta la discussione in studio con gli esperti e i colleghi giornalisti che hanno analizzato anche gli aspetti psicologici della vicenda, ponendo anche altri esempi di gesti estremi. Espressi dubbi sul quadro ricostruito nelle prime ore, che portarono a non disporre l’autopsia, ma uno degli aspetti ‘nuovi’ rispetto a quanto emerso sino a qui, ossia la cosiddetta ‘autopsia psicologica’.

«Quello che rimaneva di mio figlio è stato messo in un bidone insieme ai suoi indumenti». È una frase che pesa come un macigno quella pronunciata da Lidia e Gennaro, i genitori di Andrea Costantini, 38 anni, originario di Penne, trovato morto il 15 settembre nella cella frigorifera del supermercato Eurospin di via Corsica, a Termoli, dove lavorava come macellaio. Una tragedia che, nelle prime ore, venne incasellata rapidamente come suicidio. Una conclusione che la famiglia non ha mai accettato.

Proprio la loro determinazione ha portato alla presentazione di un esposto che ha spinto la Procura di Larino ad aprire un fascicolo prima per omicidio e istigazione al suicidio, poi per ulteriori ipotesi collegate ai trattamenti sul corpo e alla mancata autopsia immediata. Oggi le indagini sono ancora in corso, il corpo è stato riesumato e gli accertamenti sono ripartiti da zero.

Le domande dei genitori: «Vogliamo la verità»

«Vogliamo sapere cosa è successo davvero», ripetono Lidia e Gennaro. La loro richiesta è molto precisa: accertare l’eventuale presenza di tracce biologiche sugli indumenti sigillati insieme al corpo del figlio.

«Non chiediamo un esame del DNA per capriccio. Su quei vestiti potrebbero esserci saliva, sudore, segni degli aggressori. Vogliamo che sia tutto analizzato. Quei vestiti possono parlare».

Nella ricostruzione iniziale, Andrea si sarebbe tolto la vita infliggendosi due coltellate al torace. Un’ipotesi che i genitori giudicano inconciliabile con diversi elementi: il coltello non sarebbe stato ritrovato vicino al corpo, sul collo sarebbero visibili segni che – a detta della famiglia – «non hanno ricevuto spiegazioni convincenti» e Andrea non avrebbe manifestato comportamenti compatibili con una scelta suicidaria.

Le parole della compagna e il contesto familiare

La moglie Angela, nelle ore successive, avrebbe confidato ai familiari: «Qui non si può vivere più. Questo posto è diventato un inferno». Una frase che per la famiglia assume un peso particolare, anche perché – raccontano – «non era la prima volta che esprimeva questa preoccupazione».

L’assenza di Andrea da casa non venne vista come un gesto regolare: «Quando non tornava, richiamava subito. Era una persona precisa, puntuale. Quel pomeriggio qualcosa non tornava».

Quel terreno che era diventato un incubo

Pochi mesi prima della morte, Andrea aveva acquistato un terreno in Molise, un piccolo sogno costruito per la famiglia e per il figlio. Ma negli ultimi tempi, riferiscono i genitori, «quel terreno si era trasformato in un incubo». Andrea avrebbe confidato: «Quando vado lì mi tremano le gambe». Paure, presunte minacce, timori mai del tutto chiariti.

I rilievi dei consulenti: «Serve l’autopsia, serve l’autopsia psicologica»

La criminologa interpellata dalla famiglia ha ribadito l’importanza dell’autopsia – mai eseguita al momento della morte – per accertare:

– la natura precisa delle ferite;
– la compatibilità o meno con un gesto autolesivo;
– eventuali segni di colluttazione o di immobilizzazione;
– tracce biologiche riconducibili a terzi.

Ma c’è un altro elemento ritenuto strategico: l’autopsia psicologica, uno strumento sempre più usato nei casi dubbi. Serve per ricostruire lo stato mentale della vittima nelle settimane e nei giorni precedenti, analizzando comportamenti, scritti, relazioni, progetti di vita. «È essenziale verificare se Andrea avesse un profilo compatibile con un rischio suicidario», spiegano gli esperti.

Il biglietto d’addio e la firma sospetta

Tra gli aspetti più controversi c’è il biglietto d’addio trovato nella tasca dei pantaloni del 38enne. Era chiuso dentro una bustina trasparente, in modo accurato. Un dettaglio che non convince la famiglia: «Lui non avrebbe mai preparato una cosa così». Inoltre, è stata chiesta una perizia calligrafica perché – secondo i genitori – «quella non sembra la sua scrittura».

La polizza e i progetti di vita

Un ulteriore elemento che alimenta i dubbi è la polizza assicurativa che Andrea avrebbe sottoscritto poco prima della morte. Un particolare che la famiglia non riesce a interpretare come coerente con un gesto volontario. Anche perché – dicono – «aveva progetti, aveva investito in quel terreno per far giocare suo figlio, parlava di futuro, di una vita nuova in Molise».

«La cella frigorifera non è un luogo di suicidio»

Gli specialisti sentiti dai familiari sono concordi nel definire atipica la modalità del presunto suicidio. «La cella frigorifera non è un luogo usuale per togliersi la vita. È una scelta difficilmente compatibile con un gesto improvviso o impulsivo». Non solo. «Le ferite da coltello al petto richiedono una dinamica che deve essere accertata con tecniche medico-legali avanzate».

Un caso che attende risposte

La riesumazione del corpo, disposta dalla Procura, rappresenta un passaggio cruciale. Gli inquirenti dovranno ora stabilire se le lesioni sono compatibili con un suicidio o se indicano la presenza di terze persone. E sarà altrettanto determinante l’esame degli abiti e delle tracce biologiche conservate insieme ai resti.

Intanto, la famiglia continua a chiedere ciò che rivendica da settembre: la verità.

«Non accusiamo nessuno – ripetono Lidia e Gennaro – ma vogliamo sapere cosa è successo a nostro figlio. E finché non lo sapremo, non ci fermeremo».

E B