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sabato 4 Ottobre 2025
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Sabino Esplodenti: la “rinascita” che convince e inquieta

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CASALBORDINO. La notizia — il passaggio della Sabino Esplodenti di Casalbordino sotto il controllo di Arca Defense (Leggi) e la conseguente riconversione produttiva dalla demilitarizzazione alla produzione di munizioni — arriva come una doppia notizia: consolazione e inquietudine, promessa di salvezza e motivo di riflessione.

Sul versante umano ed economico la notizia non si discute: c’è il sollievo di un territorio che ha pagato un prezzo altissimo. Le due esplosioni nel 2020 e nel 2023 che hanno tolto la vita a sei operai hanno lasciato ferite aperte nella comunità. Il blocco delle attività, la cassa integrazione per decine di famiglie, la paura di perdere il lavoro — tutto questo pesa. In questo quadro, l’annuncio che lo stabilimento verrà rilanciato, che circa 70 posti potranno essere garantiti e che sulla carta sono previsti investimenti importanti, suona come una boccata d’ossigeno. Se la nuova destinazione consentirà di eliminare le lavorazioni più rischiose e di mettere in atto standard di sicurezza moderni, allora quella riconversione avrà consegnato qualcosa di concreto a chi ha già sofferto troppo: un lavoro più sicuro, stipendi in tasca, prospettive per un territorio che vive anche di quell’industria.

Ma è qui che nasce il paradosso: la soluzione ai rischi e alla disoccupazione è — letteralmente — produrre armi. Munizioni. In tempi in cui intorno a noi si parla di correnti di guerra, di scenari bellici in Ucraina o a Gaza, una scelta del genere non può che far riflettere e, per molti, suscitare disagio. È legittimo chiedersi se la sicurezza immediata di qualche decina di famiglie giustifichi l’ingresso a pieno titolo della produzione di materiale bellico in un tessuto sociale che, come tanti altri, sogna di distogliersi dalla logica del conflitto.

La domanda etica non è nuova, ma oggi è più acuta: quando riconvertiamo un impianto per tutelare vite e redditi, stiamo sostenendo un modello produttivo che alimenta la capacità di uccidere a distanza. È una contraddizione che si consuma sotto la pelle della comunità — e che non può essere risolta con slogan. Da un lato c’è la necessità concreta di proteggere chi lavora e chi dipende da quei salari; dall’altro c’è la responsabilità collettiva di chiedersi quale ruolo vogliamo che il nostro tessuto produttivo abbia nel mondo.

Il compromesso possibile esiste, ma richiede trasparenza e sapere: trasparenza sulla natura esatta delle produzioni, sui clienti, sulle garanzie di controllo e legalità; sapere condiviso sui limiti imposti dal diritto internazionale; garanzie sindacali forti e tutele occupazionali vincolanti. Non basta annunciare investimenti e promesse di assunzione: servono contratti chiari, piani per la sicurezza sul lavoro validati da enti indipendenti, e una partecipazione pubblica che impedisca scelte che poi, a valle, siano difficili da correggere.

Infine, c’è una responsabilità politica e culturale. In un momento storico in cui la parola “pace” dovrebbe essere al centro del discorso pubblico, il rafforzamento di filiere belliche sul territorio nazionale ci impone una riflessione collettiva: vogliamo che la nostra industria sia parte della soluzione per la sicurezza e il lavoro, o che diventi — senza confronto pubblico — strumento della continuazione dei conflitti? Non è una scelta che può essere lasciata solo ai bilanci delle imprese o alle trattative aziendali: riguarda la politica, i sindacati, la comunità locale e la società civile.

La riconversione della Sabino Esplodenti può essere occasione di rinascita — ma perché non si trasformi in mera sostituzione di rischio con altra forma di rischio morale, servono scelte coraggiose e trasparenti. Occorre mettere al centro la tutela delle persone — non solo come forza lavoro, ma come cittadini che hanno diritto a sapere in che modo il loro lavoro incide sul mondo. E, parallelamente, coltivare politiche economiche che incentivino alternative produttive non belliche, perché la pace non sia solo un ideale ma anche un percorso industriale possibile.

Federico Cosenza