“Antropologia di un’artista Naif”: la riflessione su Maria Cristina Sallese

CASALBORDINO mar 06 agosto 2024

Casalbordino A proporre questa riflessione è Lia Giancristofaro, docente di Antropologia Culturale dell’Università “Gabriele d’Annunzio”

Cultura e Società di La Redazione
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 ©Enzo Dossi
©Enzo Dossi

CASALBORDINO. “Il modello di sviluppo industriale e finanziario che ha fatto delle città i poli della crescita economica ha prodotto profondi divari sociali ed economici. I paesi e le campagne diventano aree “marginali”: aree che, per antonomasia, sono impoverite e svuotate dall’accentramento di risorse e investimenti nelle città.

Le crisi ricorrenti di varia natura evidenziano la debolezza del modello urbano e dell’idea di una crescita incondizionata delle città.

Così oggi si guarda con una nuova sensibilità ai “margini” come a luoghi generativi di alternative. A questi margini ho imparato a guardare con molto interesse da bambina e da adolescente, quando seguivo mio padre nelle sue ricerche antropologiche in Abruzzo.

Erano tempi in cui ai “margini” guardavano solo gli studiosi: le masse fuggivano dalle campagne e si lasciavano alle spalle l’eredità contadina, che così ha cessato di essere trasmessa. 

In queste ricerche, ho conosciuto Maria Cristina Sallese, che, come gli studiosi, andava controcorrente: una campionessa dell’eredità contadina

Maria CristinaCasalbordino faceva una auto-documentazione artistica e storica, simile a quella dei musei etnografici. Possiamo definirla un museo vivente.

Ma apparteneva a quella categoria museale un po’ antiquata che vorrebbe rappresentare la vita del passato in modo realistico e meramente nostalgico. Lei, che era tutt’altro che ripiegata su sé stessa, attraverso i suoi quadri e le sue canzoni, realizzava una museografia che da un lato era descrittiva, dall’altro lato era espressiva e performativa.

Una contadina che si attiva nella auto documentazione del suo sapere: la massima espressione di autonomia culturale, perché con lei la cultura subalterna si auto documenta, riflette su se stessa, non ha bisogno del ricercatore, dell’antropologo, del letterato, dell'agente esterno alfabetizzato che documenti la sua cultura.

Praticamente, l’artista naif ha svolto una operazione gramsciana: si auto documenta indipendentemente dall'intervento dell'intellettuale, al massimo intrecciandosi con l’intervento dell’intellettuale, come dimostra la profonda sintonia con mio padre e con altri studiosi. 

Maria Cristina arriva ad una visione universalista e pacifista passando per lutti e sofferenze, sopportati pazientemente in un’ottica cristiana: il fratello morto sotto al trattore, il padre morto durante la guerra, la mamma morta a causa della guerra. Da qui, con spirito pacifista, antimilitarista, incarna la Dichiarazione dei Diritti Umani e la Costituzione. Concetti giganteschi calati nella realtà attraverso la potenza delle mani dei contadini, capaci di passare dalla zappa al pennello, come faceva lei.

Un attivismo femminile molto coraggioso, che si sviluppa in una società in cui la donna non poteva esporsi: una donna in pantaloni, cambiata intorno ai cinquant’anni, quando decide di prendere le redini della sua vita e della sua espressività, similmente a quanto fa Annunziata Scipione, il suo alter ego del Teramano, che ancora non conosce. Maria Cristina giustifica la sua rivoluzione interiore con un sogno miracoloso: è la Madonna che le ha indicato la strada. In realtà, l’arte era nella sua formazione familiare, con una famiglia che nella vita quotidiana si cimentava nel canto a dispetto, negli stornelli, nel ballo, nella vita espressiva che alla sera ristorava lavoratori che non si saziavano di solo pane: avevano bisogno di socializzare, di condividere, di comunicare. La performance artistica si apprende. 

Maria Cristina pretende il riscatto dei contadini, dipingendoli senza occhi e senza bocca, pupazzi senza volto, privi del diritto di parola: una pennellata precisa e onirica che trasporta fuori dalla vita contadina i particolari di un messaggio simbolico, rivendicante un ruolo per i contadini nella società, e soprattutto un ruolo per la donna contadina, che secondo lo schema gerarchico e naturalistico è invece destinata solo a fare estremo sacrificio di sé. Per il marito, per i figli, per i genitori, per i suoceri: l’ultima ad andare a dormire, la prima a svegliarsi, la contadina va in campagna con il neonato da allattare, non sa a chi lasciarlo, nessuno l’aiuta, come lei racconta in uno dei suoi quadri. 

La chiave di lettura di Maria Cristina offerta da mio padre Emiliano era che Maria Cristina non fosse femminista ma socialista, tutta volta a combattere per la parità dei diritti e dei doveri. Emiliano Giancristofaro negli anni ‘80 racconta il socialismo naif di Maria Cristina Sallese in una delle sue “Storie del Silenzio”La pittrice contadina, in cui ella spiega e racconta i suoi quadri come se stesse insegnando a scuola: illustra la vita contadina e i dettagli dei lavori agricoli perché il suo obbiettivo è documentare, trasformare il suo ricordo in una memoria imperitura: un trattato di storia sociale vissuto dall'interno e scritto attraverso il pennello in una prospettiva intersezionale, perché con uno sguardo femminile osserva la modernizzazione delle campagne e dei paesi con uno sguardo critico, anti-consumista e anti-capitalista.

Lo sviluppo non sempre è sostenibilità, non sempre è progresso sociale, e i margini restano margini: l’artista, con la sua critica sociale, icasticamente rappresentata in ex contadini che mangiano troppo e male, vuole aiutare le persone a fare una cernita tra quello della modernità che può essere utile e quello che può essere dannoso.

Fa notare le ingiustizie della vita contadina, così sovraesposta ai rischi, alla fatica, al sudore: non posso dimenticare una sua famosa canzone che racconta dei contadini in estate tormentati dai tafani, mentre i turisti ne hanno una visione bucolica e edulcorata. E fa notare le ingiustizie della vita urbana, fondata sul lavoro impiegatizio e operaio, deprivata del rapporto con la natura, dello svago, della socializzazione. 

La sua attività espressiva e il suo eclettismo performante, poggiato sul mito fondativo del sogno, sembrano voler ricorrere al sovrannaturale per consentire il dispiegarsi delle sue capacità, del suo sguardo femminile, della sua poetica sempre attuale, universale. Riflessiva, intuitiva e attenta ai dettagli, sebbene “illetterata”, come amava dire, restituisce una vera miniera circa le tradizioni del suo ambiente, le idee e il linguaggio dialettale, nelle sue tele e nelle sue canzoni.”

Cosi scrive Lia Giancristofaro, docente di Antropologia Culturale, presso l’Università “Gabriele d’Annunzio” di Chieti-Pescara.


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